Enzo Piccinini: ho fatto di tutto per essere felice, ovvero la normalità straordinaria.

Testimonianza del dott. Manlio Gessaroli

Il libro di Marco Bardazzi su Enzo Piccinini è straordinario per chiunque si affacci alla professione medica, e per chiunque si appresti ad affrontare qualunque lavoro che abbia al centro l’uomo.

E credo che a questo punto occorra iniziare anche a pensare al successivo volume, quello dei suoi amici, quelli che Pietro, figlio di Enzo, ha descritto nella presentazione del 20 maggio: “non i più devoti o più bravi, ma i più vivi, anche un po’ matti, gente che non ti saresti mai aspettato di trovare in chiesa, eppure tutti conquistati dalla fede intensa di mio padre”. Dobbiamo far loro raccontare perché ogni storia sarà preziosa, perché Enzo è sulla strada della Santità, servo di Dio. Io provengo da questa storia.

Come per Carugno (dovete assolutamente leggere ed immedesimarvi in quello che successe tra Enzo ed il sassofonista jazz), il mio primo impatto con Enzo fu conflittuale, al punto che di ritorno da un viaggio in cui l’accompagnai a Bergamo, all’apice della discussione mi fece scendere dalla macchina; solo che ancora non eravamo arrivati a Bologna…

Manlio Gessaroli

A quel tempo io ero molto legato alla città da cui venivo, Rimini, ad un sacerdote che ci seguiva da studenti, Don Giancarlo; ero impallinato con la musica rock e con i drammi esistenziali cantati da una generazione di bands, che però in ultima analisi avevano tutte un accento un po’ vittimistico. “Nessuno mi vuole veramente bene per quello che sono”: naufragare in questi pensieri era il passaporto per giustificare tutto. Il disimpegno, lo sballo, la rabbia, lo spreco di risorse e di rapporti.

Enzo avvertiva che io, come altri che provenivamo da Rimini, facevamo fatica a tagliare il cordone ombelicale e a prendere il largo, e io cominciavo a non essere più un ragazzino.

La partita vera si riaprì quando Don Giussani presentò un libro per me eccezionale (il Miguel Manara di Oscar Milosz) agli universitari al palasport di Rimini; il dialogo con l’Abate del 4° quadro mi toccò al punto che pensai di non voler morire prima di aver sperimentato la promessa di quelle parole.

“Verrà forse un giorno in cui Dio ti permetterà di entrare brutalmente, come una scure, nella carne dell’albero, e di cadere pazzamente, come una pietra, nella notte dell’acqua, e di scivolare cantando, come il fuoco, nel cuore del metallo. E quel giorno saprai di quale carne è fatto il mondo”.

Da lì a poco ci fu un’assemblea con Enzo il cui ordine del giorno invitava a riflettere sul perché valesse la pena fare un cammino di esperienza cristiana. Io alzai la mano e dissi: “Io vorrei sapere di quale carne è fatto il mondo, sono qui per questo”. Mi guardò negli occhi quasi a chiedermi “Davvero ti interessa questo? Allora io ci sono”.

Abbattere la barriera

Era la mia esigenza di felicità: entrare come una scure nella carne delle cose, dei rapporti, ci provavo sempre ma non ci riuscivo. C’era come un vetro, un muro dicevano i Pink Floyd, una barriera elastica come affermava il matematico Francesco Severi, che si opponeva al raggiungimento di una pienezza.

Enzo sembrava avesse abbattuto il muro, avesse frantumato il vetro. Qualunque posto in cui fosse sembrava quello giusto, qualunque cosa si stesse facendo, sembrava la più importante ed interessante del mondo. Ad un certo punto io ero interamente preso, volevo andare in fondo all’esperienza che piano piano avvertivo rifluire nelle mie vene. Perché anche io voglio essere felice. Infatti cosa serve a noi leggere le grandi gesta di un uomo senza una strada, un sentiero per poter sperimentare dentro la nostra vita la stessa densità di ogni istante vissuto?

Ogni volta che si sente parlare di Enzo e si raccontano aneddoti, si finisce sempre per mettere l’accento sulla sua straordinarietà, su cose che solo lui era in grado di fare, ed erano davvero tantissime. Però ciò che di Enzo mi ha sempre colpito non è mai stata la sua capacità di compiere azioni fuori dal comune, ma l’eccezionalità con cui viveva le cose solite: dal mangiare e bere, al dialogo tra amici; dalle decisioni da cui sarebbe dipeso il destino del mondo al gusto di perdere tempo insieme.

Si alternavano momenti talmente surreali, cioè fatti di cose cosiddette banali (che se fosse passato qualcuno sano e interventista avrebbe chiamato il 118), ad istanti in cui si toccava il cuore dell’universo, e io ho proprio nitida la percezione che non avrei voluto essere in nessuna altra parte del mondo e non ci sarebbe stato niente di conosciuto che mi avrebbe fatto cambiare idea, così come ricordo con la stessa nitidezza il dolore e la rabbia che mi prendeva quando non riuscivo ad esserci o quando non ero invitato al raduno di turno.

Enzo ed alcuni amici con il Cardinale Giacomo Biffi

Che cosa può attirare così dei ragazzi di 20 anni? Niente di meno di quello che ogni tanto nel libro emerge come “il segreto della vita”, cioè la chiave che ti permette di essere felice qui, adesso, nella esatta condizione in cui ti trovi, esattamente come sei. Enzo era pieno di contraddizioni come ciascuno di noi, ma non erano mai l’ultima parola. Sapeva correggersi e farsi correggere da chi stimava, e talvolta il suo essere vaso di creta intrigava ancora di più a cercare di conoscere chi fosse alla radice della grandezza che portava. Chi lo rendeva spesso “strumento di un miracolo”?

“Il gusto del vivere non è negato a chi sbaglia”, è scritto nel retro della copertina, “è negato ha chi non ha un senso di mistero nella propria vita”. Che carezza sono queste parole per chi vive in tensione al vero e si accorge di quanto decade o tradisce? Quando ci si trovava all’inizio del raduno Enzo spesso iniziava dicendo una cosa che mi porto tuttora addosso: “Chiunque noi siamo, qualunque cosa abbiamo fatto fino a 5 minuti fa, ora possiamo ricominciare, ora; vale anche per noi, per me, adesso qui. Qualunque cosa aberrante abbiamo fatto o pensato prima di entrare in questa aula, non possiamo lasciarla vincere.  Io su questo non mi sono mai arreso e ancora non mi arrendo, che le ferite o le delusioni restino lì con il loro carico di male, di seme di divisione.”
Tra le varie canzoni che amava cantare con noi c’era Felicità di Battisti: “Felicità! Ti ho perso ieri ed oggi ti ritrovo qua!”. Perché questo succeda non basta un discorso motivazionale, lo sappiamo tutti; non è così semplice.

La risposta è nella vita di Enzo, per lui era davvero così, ricominciava sempre. Nel libro io lo paragono a Rocky, perché anche dopo colpi duri si rialzava sempre, più deciso di prima e noi iniziavamo a partecipare di questa tenerezza ultima verso noi stessi, che non cancellava i fatti amari o drammatici, ma ne trasformava la capacità di male in possibilità di bene, di rapporti rinnovati.

Allora diventava troppo intrigante capire da dove prendeva l’energia per fare quello che non riusciva a nessuno: perdonarsi, perdonare e ripartire. Nel libro, Marco Bardazzi sviscera la questione. E’ il “Cristianesimo vissuto come Presenza di Dio fatto uomo, che vive oggi come 2000 anni fa” e ti raggiunge attraverso una carne, un volto umano per introdurti al rapporto col Mistero Presente nella realtà.

Per Enzo si giocava tutto nel rapporto con Don Giussani e il Carisma da lui nato, fino a percepire tutte le circostanze, perfino i nostri volti, come luogo vocazionale al destino. “Attraverso la compagnia dei credenti”, come il titolo dell’ultimo libro tratto dalla vita di Don Giussani, che per la sua morte ha scritto: “la cosa più impressionante per me è che la sua adesione a Cristo fu così totalizzante che non c’era più giorno che non cercasse in ogni modo la gloria umana di Cristo”.

Si tratta di una dinamica permanente.  Attraverso una storia particolare, il rapporto con Don Giussani e la grande compagnia dei credenti, la Chiesa, una adesione totalizzante a Cristo.

È questa la strada per addentrarsi nel rapporto col Mistero, una Presenza viva dentro la storia, ogni giorno una partita nuova, un nuovo inizio, anche ora, perché “Ciò che si sa o ciò che si ha diventa esperienza se quello che si sa o si ha è qualcosa che ci viene dato adesso: c’è una mano che ce lo porge ora, c’è un volto che viene avanti ora, c’è del sangue che scorre ora, c’è una risurrezione che avviene ora. Fuori di questo “ora” non c’è niente!”.

Poche settimane fa è morto Nicola Zattoni per una forma particolarmente aggressiva di SLA.

Dal momento della diagnosi, giorno per giorno è cresciuto il giro di amici intorno a lui in un modo che non si può spiegare con la pietà per una carne marcescente.

In Nicola sono esplose tutte le evidenze, le domande ultime dell’essere uomini, che lo hanno sempre accompagnato e che la progressione della malattia non ha eliminato, ma continuamente incrementato, con la drammatica esigenza di una risposta totale nella sproporzione di non riuscire più a fare quasi nulla.

Allo stesso tempo è esplosa in lui anche la gratitudine per l’incontro fatto: quando sorrideva lo illuminava di luce, rendendo i suoi occhi commossi indimenticabili. Paradossalmente in questo tempo ha realizzato tutto quello che amava di più, cioè che tutti potessero vedere il miracolo che era diventata la sua vita trasfigurata dall’opera del Signore in lui.

Tutte le sere si stupiva della Presenza viva di Cristo, fatta di volti e fatti, chinata sul suo niente e sfidava sempre tutti a domandarsi “ma che cosa riempie veramente il cuore?”. Fino a dire che questa esperienza gli è più cara della guarigione, pur continuando a pregare tutte le sere perché la guarigione avvenisse.

Avvenimento e Mistero

Ma questa in fondo non è anche la stoffa del mio io? Il sì che Nicola ha detto alla sua condizione, in forza dell’incontro fatto, non è lo stesso che devo dire io alla mia condizione?

Ecco la responsabilità grande che Enzo con la sua vita ci ha lasciato, come lealtà e fedeltà alla storia vissuta! Che dentro la realtà torni ad esistere l’io con tutta la grandezza e la sproporzione di cui è fatto! Quel livello della natura in cui la natura stessa prende coscienza, martoriato, ridotto, che anche dentro una carne fragile e provvisoria, rifiorisce irriducibile grazie all’incontro con una Presenza, che provoca e “sconvolge per una corrispondenza alla vita secondo la totalità delle sue dimensioni”.

Enzo operava nelle sale operatorie e assisteva i suoi malati nei reparti del Policlinico Sant’Orsola di Bologna. In tanti lo hanno visto all’opera.
Marco ha scelto una frase di Julián Carrón il successore di Don Giussani, posta all’inizio, molto centrata per dire il cuore di tutta l’esperienza di Enzo: “quando il reale è riconosciuto come avvenimento, come originato dal Mistero, nella propria vita si produce una intensità senza paragone”.

Manlio con don Fabio Baroncini

Pensate che rivoluzione è la possibilità che ogni azione, anche la più banale, sia in rapporto con l’Infinto, in un mondo in cui la normalità è stata svuotata; in cui essere normali è come scomparire; in un mondo in cui per farsi vedere, per farsi volere bene bisogna fare qualche cosa di fuori dal normale, o riuscire secondo i criteri mondani. Pensate che rivoluzione abbia visto Enzo attraverso Chiara, sua sorella vulcanica che prende i voti di suora di clausura scoprendola più lieta e intensamente profonda di quando avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Pensate che implicazione può avere tutto questo a livello professionale.

Qui c’è la grande partita che lancia il libro: l’esperienza cristiana come profondità dell’umano: non un’altra cosa dall’umano, ma la sua profondità. Un approfondimento perfino del metodo scientifico americano imparato ad Harvard, al Mass General Hospital.

Si può così imparare da tutto fino a percepire il proprio essere crescere, cambiare. Infatti come emerge nel libro, più Enzo si innamorava di Cristo più cresceva la sua intelligenza del reale, che si riverberava nel lavoro e nei rapporti. Nei quasi 20 anni in cui l’ho conosciuto ha fatto un percorso tale da sembrare un altro uomo, pur mantenendo tutte le sue caratteristiche caratteriali. Era come una fibra muscolare: se adeguatamente stimolata, si contrae al massimo grado, mai parzialmente. Per Enzo il più grande nemico dell’uomo era la tiepidezza.

Enzo aveva il coraggio di dire “io” facendo quello che doveva fare: lo sguardo al malato, la ricerca, il desiderio di imparare sempre, l’attenzione al particolare, l’esperienza del rischio, la visione professionale e sociale.

E dal coraggio di dire “io”, come ha recentemente affermato Bernard Sholtz, il presidente del Meeting di Rimini, è nato un “noi”, il suo gruppo innanzitutto, e anche noi. Da questo “noi” prendono il coraggio di dire “io” anche quelli un po’più timorosi in una dinamica virtuosa, fino a sperimentare la propria crescita non nel narcisistico aumento del potere personale, ma nell’affermazione e nella crescita dei tuoi allievi e dei tuoi amici, nel rapporto con i pazienti, in una misteriosa connessione tra la propria vocazione segnata dalle circostanze ed il disegno Universale di Dio, cui desiderava tanto contribuire, la gloria umana di Cristo, cioè l’uomo che si realizza pienamente.

Come si fa a non desiderare di entrare così dentro il reale come una scure fino al cuore della vita? Come si fa a non desiderare di essere nel luogo dove si giocano tutte le partite più profonde e vere, quel luogo che – quando ne sperimenti l’attrattiva – non puoi più cancellare dalla memoria, anche se te ne allontani? Come si fa a non volere andare all’origine di una esperienza così da poterla fare propria?

Vi sono poi due fatti raccontati nel libro che ci lanciano un ulteriore guanto di sfida. Il primo è il dialogo con la Professoressa Garuffi nell’appartamento improvvisato di Boston. Enzo si lamentò perché in casa c’erano le tazzine del caffè spaiate. “Anna, disse, la casa qui per noi è come se fosse la chiesa e tutto deve essere bello e ordinato.   Se mancano i soldi per comprare le tazzine, parliamone, avresti dovuto dirmelo, chiamarmi mentre ero in Italia, non capisci che la nostra amicizia deve arrivare fino a questo?”

Il secondo è l’episodio della paziente Carla Morelli: paziente per tutti inoperabile, ma con dei dati che lasciavano ancora uno spiraglio. Nel dialogo con Giussani emerge il giudizio: se i dati dicono così, di fronte a Dio bisogna andare, di fronte agli uomini non lo so, ma di fronte a Dio bisogna andare.

Ecco la sfida: possiamo cadere in un modo di vivere il Cristianesimo che può rendere tutto uguale a tutto, tanto il problema è Cristo, e siccome c’è Gesù trattiamo tutto con sufficienza, dai rapporti alle cose, fino al lavoro, alla sofferenza, alla libertà altrui.

E c’è un’altra posizione in cui, proprio perché c’è Cristo al fondo di ogni cosa, mi interessa tutto fino al dettaglio e non c’è particolare o persona che non prenda valore; come dice Ada Negri, “la vita ha in ogni battito la tremenda misura dell’eterno” perciò ogni istante umanamente vivibile può riservare la sorpresa più grande della vita, secondo un Mistero per noi insondabile, e perciò è preziosissimo. E il dato, proprio quel dato, non generico, diventa decisivo, perché ultimamente originato dal Mistero, e allora inizia a prevalere sulla opinione, sulla tua proiezione e ti sfida ad indagarlo, a seguirlo, fino in fondo.

Questo accade quando si mette davvero il cuore in quel che si fa.

Uno dei segreti del “metodo Enzo”, l’affermazione del premio Nobel Alexis Carrel “molta osservazione e poco ragionamento sono la strada per la verità”, si esalta alla luce dell’incontro Cristiano. Infatti, se il più grande nemico per un medico è l’affermazione della propria idea sulla realtà e sull’esperienza, si può arrivare ad un punto in cui anche l’esperienza stessa può diventare ideologia quando ti basi su di

essa per decidere a priori: “di questi casi ne ho già visti tanti, so come vanno a finire, dejà vu”.  La concezione cristiana di ogni essere come unico e irripetibile può aiutare a concepire ogni caso come una partita nuova, e la considerazione profonda dei dati secondo la totalità dei fattori può guidare la decisione.

Ognuno di noi è sfidato.

Con il Prof. Rui P. Fernandes, dell’University of Florida, un No 1 della Chirurgia Maxillo-facciale

C’è un’ultima cosa che ricorre sempre nel libro e che fa di Enzo un grande amico della nostra vita: occorre non essere soli.

Qualcuno in questa pandemia come anche quelli che hanno conosciuto Zatto, si è accorto di quanto sia preziosa la vita, che io non mi faccio da me e che qualcuno in questo momento mi sta dando la vita; di quanto anche un solo respiro non sia scontato. Ma il virus o la malattia in sé non hanno la forza di ridestare a lungo il cuore dell’uomo. Perché cambi davvero lo sguardo sulla vita, occorre non essere soli.

Per affrontare il fallimento, l’errore, senza scappare, senza minimizzare, ma mettendoci la faccia, cambiando la coscienza e non appena la tecnica, e soprattutto per non perdere il coraggio di rischiare, così decisivo in certe situazioni professionali, insomma per essere interi in quel che si fa, occorre ancora non essere soli. Da soli non si tiene, nemmeno seguendo i corsi del più grande mental coach.

Allora è dentro un rapporto decisivo che si può vivere con questa intensità, e l’intensità, come emerge dal libro, non coincide con una vita frenetica senza sosta, ma come diceva Mounier nelle Lettere sul dolore, consiste nell’imprimere all’istante il sigillo dell’infinto, cioè vivere il reale riconosciuto come avvenimento, come originato dal Mistero, come ha scritto Don Carrón.

Lo ha detto il Papa nell’omelia del Sabato Santo, “è possibile ricominciare, sempre. Anche dalle macerie del nostro cuore Dio può costruire un’opera d’arte”. Auguro a tutti questa esperienza, permettendomi una variazione sul testo della bellissima canzone Sally di Vasco Rossi: “Per vivere davvero ogni momento con ogni suo turbamento, come se fosse il primo”.

Manlio Gessaroli