Intervista a Elena Ugolini, membro dell’Assemblea dei fondatori

Elena Ugolini

Come hai conosciuto Enzo?

Enzo è entrato nella mia vita come un uragano, alla fine del secondo anno di università, durante una vacanza estiva in montagna, a Santa Caterina Valfurva. Eravamo in 400, avevamo preparato tutto con gli amici, ma non sapevamo che Enzo ci avrebbe cambiato completamente prospettiva. Abbiamo vissuto 7 giorni insieme dalla mattina alla sera, con giornate così intense da sembrare anni, con discussioni interminabili che spesso finivano con rotture su questioni di fondo che riguardavano la nostra esistenza.

Io ho avuto la grazia di fare “l’incontro della vita” a 14 anni, in prima liceo, attraverso il mio prof di religione, don Giancarlo Ugolini (non è mio parente), a Rimini. Mi ero già stancata delle prediche quando ero in terza media e non avrei mai pensato che il Signore venisse a cercarmi in quella classe di liceo. Ho il ricordo nitido di quel momento in cui, durante una “tre giorni” a Fonte Avellana, ho avuto il coraggio di dire – davanti a tutti quelli che si lamentavano perché dopo i bei giorni vissuti insieme saremmo dovuti tornare a casa- “se è vero quello che stiamo vivendo insieme questi giorni, sarà vero sempre”.

Nella vacanza a Santa Caterina Valfurva con Enzo era riaccaduta la stessa cosa, ma in modo molto più consapevole e drammatico. Lui ci aveva aiutato in quei sette giorni a dare un nome a “quel Qualcosa di più grande che c’era fra di noi”. L’incontro con Enzo ha coinciso per me con il passaggio dal senso religioso alla fede. Non ero mai riuscita veramente a dare un nome a quello che mi era accaduto e che mi aveva cambiato la vita da quando avevo 14 anni, e attraverso Enzo, insieme a quel gruppetto di amici era successo.

Eravamo arrivati a Bologna nel settembre del 1978 ed avevamo trovato terra bruciata. Dopo le vicende del ‘77 non era più possibile una vita pubblica in università per chi non apparteneva ai collettivi; la vita della comunità si svolgeva negli appartamenti del CLU. Ed era lì che, da matricola, visto che ero brava a fare le tagliatelle, avevo incontrato Giancarlo Cesana che veniva ad aiutare una comunità rasa al suolo dopo gli anni di piombo. È stato grazie a quelle tagliatelle che Giancarlo mi ha invitata all’equipe del CLU con don Giussani, insieme ad altre due matricole di lettere e filosofia, Alberto Savorana e Pietro Lorenzetti. Nel settembre del secondo anno avevamo già proposto i primi banchetti per le matricole per aiutare i nuovi a non fare la fatica che avevamo fatto noi l’anno prima, le convivenze di studio, le cene, i primi volantini di giudizio, gli interventi che finivano sempre in rissa per la campagna sull’aborto. Ma quella settimana a Santa Caterina Valfurva era accaduto qualcosa di mai visto. Una compagnia totalizzante, intensa, bella, capace di entrare su tutti i particolari della vita.

Il dialogo decisivo, ce lo ricordiamo tutti dopo 40 anni, si era svolto l’ultima sera, davanti ad un whisky (per Enzo) e ad una camomilla (per noi). Una nostra compagna di corso di laurea aveva avuto un ictus e per tutto l’anno precedente avevamo studiato con lei a turno perché, una volta svegliata dal coma aveva dimenticato tutto. Era all’ultimo anno di studi ma non sapeva più né leggere né scrivere e, in quell’anno, l’avevamo accompagnata a riprendere l’abc per aiutarla a laurearsi.

Mi ricordo ancora Enzo: “Lei non ha bisogno di te. Tutto il tuo sforzo non varrà nulla se attraverso di te non riconoscerà Cristo e se tu, in lei, non Lo riconoscerai. Tu non puoi restituirle neanche un attimo della sua vita, di quello che ha perso con l’ictus. Il suo bisogno è molto più grande della risposta che le puoi dare attraverso la tua compagnia. Il tuo tentativo è nobile, ma è presuntuoso. Non è la vostra compagnia che potrà risolvere il suo dramma”. Quella sera Enzo mi fece piangere. I miei amici mi difesero fino alla fine e andammo a letto alle 3 di mattina con l’idea che non avremmo mai avuto più niente a che fare con quell’uomo. Eppure quella notte, attraverso Enzo, facemmo tutti l’esperienza che solo Colui che è fra noi, non i nostri sforzi, o le nostre iniziative possono salvare la nostra vita, quella di chi ci è caro e del mondo intero. Ma nessuno aveva avuto il coraggio di ammetterlo.

Come ha inciso nella tua vita personale e professionale?

In modo assolutamente decisivo. Dopo quella discussione con cui ci eravamo lasciati l’ultima notte della vacanza ed un mese di silenzio, pensavamo proprio che tutto fosse finito, che Enzo avesse deciso di abbandonarci, ma a settembre arriva dalla Magda, la sua segretaria di Modena, una telefonata con cui ci convocava in 5, per proporci di ricominciare insieme. Da quel giorno, fino a quando non mi ha raggiunto la telefonata di un’amica la mattina del 26 maggio del 1999 per dirmi del suo incidente, non è mai passata una giornata senza che una telefonata o un messaggio avesse fatto incrociare le nostre vite. Nel 1980 non c’erano i cellulari, ma con delle bici scalcagnate, passando da una sala di studio all’altra, eravamo in grado di radunarci con il gruppetto nell’arco di un’ora, qualunque cosa stessimo facendo. Con Enzo abbiamo imparato due cose: che il “numero legale” nel cristianesimo è 2 (“dove due o tre sono riuniti nel mio nome io sono in mezzo a loro”) e che la vita se ci è stata data va spesa insieme a Chi ce l’ha regalata e continua a donarcela attraverso tutto quello che accade.

“Il cammino del Signore è semplice, come quello di Giovanni e di Andrea: una curiosità seria, destata dal presentimento del vero”. Questa frase, che ho sentito ripetere tante volte da don Giussani, nell’amicizia con Enzo si realizzava tutti i giorni. Lui non ci ha legato a sé, ma ci ha aperto al suo rapporto filiale con Giussani, ci ha insegnato ad amare la Chiesa ed il nostro Arcivescovo Biffi, ha sempre provocato la nostra libertà e la nostra capacità di iniziativa, stimandoci in modo assoluto. A 20 anni avevamo la certezza che tutto fosse possibile, che nulla fosse contro di noi, che dentro ogni circostanza ci fosse sempre una possibilità di bene.

Questo è il segreto di tutta la mia vita professionale. Enzo ci ha chiesto delle responsabilità incredibili. A 21 anni, ero responsabile di un gruppo di facoltà di 100 persone; ci ha insegnato a non aver paura, a buttare sempre il cuore oltre l’ostacolo, ad essere aperti e curiosi, a cercare di entrare in rapporto con tutto e con tutti. “Se nulla è contro di noi nell’appartenenza alla compagnia del Signore tutto è per noi”. Enzo era figlio di don Giussani e ci ha insegnato ad essere suoi figli. Lui non si è mai frapposto al mio rapporto personale con Giussani, lo ha favorito rimandando sempre a Qualcuno di più grande di lui. Tutto quello che è nato in vent’ anni di storia insieme aveva questa origine: la CUSL, i CP, la fionda, le iniziative pubbliche, il centro culturale, la comunità che si allargava fino a coinvolgere più di milleduecento persone, le comunità universitarie delle altre città che seguivamo e cominciavano a crescere nel rapporto con noi, poi la scuola, gioventù studentesca e mille altre cose.

C’è un episodio in particolare che vuoi ricordare?

Me ne vengono in mente tantissimi. Ne scelgo tre. Il primo l’ho già raccontato rispondendo alla prima domanda. Il secondo è all’origine dell’amore della mia vita: l’educazione. Ho sempre amato il teatro e da quando facevo il liceo avevamo un gruppo teatrale con cui ci vedevamo a Rimini. Mi propongono di fare un corso con il regista Orazio Costa a Firenze, proprio nell’anno in cui la comunità ricominciava a nascere ed io avevo la responsabilità della comunità di lettere e di un Convitto dove abitavo con 24 ragazze. Scompaio per una settimana senza dire nulla a nessuno, accadono cose importanti di cui ovviamente non so nulla e quando torno a Bologna, Enzo mi guarda con quello sguardo da cui non si poteva fuggire: “il cristianesimo non sono delle cose da fare, ma un rapporto da cui non si può andare in vacanza”.  Enzo faceva così con noi. Non mollava un attimo. Con lui abbiamo imparato a gustarci il buon cibo, abbiamo visto dei luoghi meravigliosi (la prima gita la facemmo a San Galgano, in quella chiesa mozzafiato che ha come tetto il cielo), abbiamo scoperto dei libri che non avremmo mai letto, abbiamo giudicato quel che accadeva tutti i giorni, abbiamo incontrato personalità incredibili. Terzo episodio: scopro di essere incinta del terzo figlio, mentre sono alle vacanze internazionali. Vado da Enzo dicendogli che avrei dovuto lasciare tutte le responsabilità (aiutavo don Giorgio Pontiggia a seguire la comunità di gioventù studentesca a livello nazionale) perché sarebbe stato impossibile continuare a farlo con tre bambini piccoli. “Perché ti preoccupi, chiedi a don Giussani”, mi disse, e fu nel dialogo con don Giussani che capii il criterio: “all’inizio dovrai lasciare qualcosa, ma poi farai molto di più” (ed è stato vero, Giussani aveva letto in anticipo quello che sarebbe accaduto nella mia vita). Mettere al mondo dei figli è una cosa bellissima, è il primo modo con cui collaboriamo alla creazione di Dio. Ma a fare i figli sono capaci tutti, a testimoniare Cristo no”. Enzo ha fatto sempre così, non ha mai legato a sé, ha sempre rimandato a Qualcuno di più grande di sé, stimandoci in modo assoluto e rilanciandoci sempre nella vita.

Cosa dice oggi Enzo ai giovani?

Quello di cui hanno bisogno. Mio figlio più piccolo ha deciso di fare medicina leggendo un libro su Enzo e un romanzo consigliato da Enzo: “Corpi e anime”. Mi sono stupita, non avevamo mai parlato di Enzo con lui ed Enzo è entrato dentro la vita di nostro figlio da solo, colpendolo a tal punto da fargli decidere di iscriversi ad una facoltà che poi ha deciso di lasciare al primo anno, dopo avare dato tutti gli esami. Quando ci ha detto che voleva cambiare perché aveva capito che non era la strada giusta, ci ha detto che l’aveva scelta perché voleva fare come Enzo: per servire gli altri. Dare la vita per gli altri. Era rimasto talmente colpito da decidere di farlo seguendo anche la forma che aveva preso questo desiderio nella vita di Enzo. Lo ha seguito sbagliando forma e scoprendo che si possono servire gli altri e si può desiderare di dare gloria a Cristo anche facendo un altro mestiere, con grande libertà. Io sono rimasta stupita di come Enzo continui ad essere presente nella vita di tanti giovani che non lo hanno mai conosciuto. In quanti vanno sulla sua tomba a pregare per un amico o un familiare che sta male o per capire che cosa fare del proprio futuro! La sicurezza della positività ultima della realtà, la certezza che l’ultima parola sulla vita non sia la morte e l’esperienza che tutto è per noi: sono queste le tre cose di cui hanno bisogno i giovani oggi. Ed è questo il contenuto del dialogo che in modo misterioso Enzo sta continuando ad avere con molti di loro, siano essi in una corsia d’ospedale ad aiutare chi sta male (come mia figlia grande, che ha avuto lui e Fiorisa come padrini di battesimo) sia chi è in qualche parte del mondo a cercare la propria strada.

Fondazione Enzo Piccinini