Enzo Piccinini. Seme di vita nuova
Per gentile concessione di clonline.org
La chiusura della fase diocesana della causa di beatificazione del medico emiliano amico di don Giussani e l’attualità della sua testimonianza. Le parole di monsignor Castellucci e il saluto di Prosperi
24.02.2025
Matteo Rigamonti
«La gratitudine che supera il “dovuto” non è data automaticamente con la fede in Cristo; la si guadagna con la fede in Cristo vivo». Così ha parlato monsignor Erio Castellucci, arcivescovo abate di Modena-Nonantola e vescovo di Carpi, nell’omelia nel Duomo di Modena, sabato 22 febbraio, per la chiusura della fase diocesana della causa di beatificazione e canonizzazione del Servo di Dio Enzo Piccinini. Un affondo, quello del pastore che ha seguito l’intero processo iniziato a dicembre 2022, che ha preso le mosse da un episodio dell’intensa e profonda storia di amicizia tra il medico emiliano e don Giussani, anch’egli Servo di Dio e di cui proprio sabato ricorrevano i vent’anni dalla nascita al Cielo.
Enzo non era riuscito a “salvare” la vita del papà, malato, di un amico, che aveva seguito come paziente in più di un intervento: una «sconfitta umana e professionale», come ha ricordato monsignor Castellucci nei sette concisi minuti di predica. Una «prova» nella quale, però, don Giussani innesta la possibilità di una «svolta» definitiva. «Il tuo problema è che non sai offrire», dice sfidando la tristezza di Piccinini che, in quel frangente, si nasconde dietro uno sfuggente «devo imparare a pregare di più». Così facendo, come ha acutamente osservato l’arcivescovo, il sacerdote brianzolo offre all’amico, che ben conosce e comprende finanche nei silenzi, la possibilità di una «seconda conversione». La prima, dopo che si era allontanato dalla fede, era coincisa con l’incontro, durante gli studi, con il gruppo di universitari nato dal carisma di don Giussani.
Molti nel movimento di Comunione e Liberazione ricordano ancora oggi Enzo per una frase, quasi un «testamento» o «una lettera d’amore», come l’ha descritta Castellucci: «È una gratitudine che caratterizza la mia vita, perciò non ho paura di darla tutta». Quella gratitudine che era già «nel profondo» della «passione, indomabile, debordante e talvolta esagerata», della vita di Piccinini, come ben documentano la sua biografia Ho fatto tutto per essere felice e il più recente Amico carissimo. Giussani, in quell’episodio, «spostando l’asse del rimprovero», riesce a fargliela riscoprire, ma con una consapevolezza forse nuova: «Ci credi che Cristo è vivo?», gli aveva detto. A lui che quella gratitudine «per Cristo vivo e per la Sua Chiesa» già la viveva, «per il Signore nella sua vita, per la sua sposa, per i suoi figli, per una compagnia in cammino, per gli eventi di ogni giorno». «È questa», ha concluso l’arcivescovo, «la testimonianza di Enzo che la Chiesa locale riconosce come evangelica e consegna al discernimento della Chiesa universale».
«Una testimonianza che continua a prendere anche chi non l’ha conosciuto in vita», ha sottolineato Massimo Vincenzi, presidente della Fondazione Enzo Piccinini, ora incaricato come portitore, di portare, fisicamente, le migliaia di pagine di documenti e testimonianze, in sei scatole sigillate con la ceralacca, a Roma per l’avvio della fase cosiddetta, appunto, ‘romana’ della causa. Il frutto di un lavoro enorme che non sarebbe stato possibile senza l’attenta e discreta dedizione della postulatrice, Francesca Amedea Consolini, così come di tutte le persone che vi hanno partecipato, insieme all’arcivescovo, a partire dal tribunale, composto dai monsignori Franco Borsari, delegato episcopale, e Riccardo Fangarezzi, promotore di giustizia, con Massimo Poggi, notaio attuario, e che sabato hanno guidato la cerimonia in Duomo.
Ma i primi ad essere stati presi, ri-presi dalla testimonianza di Enzo, sono stati i fedeli che hanno gremito il Duomo e il sagrato mentre tutto intorno la città viveva una mite domenica di svago e shopping nelle vie del centro: amici e famiglie, colleghi medici e gente semplice, tanti giovani che nemmeno lo hanno conosciuto e che, portando con sé chi gioie e chi ferite della vita, hanno intonato come un’unica voce: «Qui presso a Te, Signor, restar vogl’io! E il grido del mio cuor l’ascolta, o Dio». Poi il Sanctus e la consacrazione prima della celebrazione dell’Eucaristia: l’offerta del corpo di Cristo. Che è come un seme, ha ricordato un altro canto, caro al popolo di Cl. Un seme, come l’immagine usata nel 1999 per le esequie di Piccinini dall’allora arcivescovo di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, e ricordata da Vincenzi: «Oggi deponiamo nei solchi di questa terra emiliana il corpo mortale del nostro amico Enzo. Lo deponiamo come un seme; cioè come una promessa e una certezza di rinvigorita e dilatata vitalità per le aggregazioni di Comunione e Liberazione, per tutto questo nostro popolo, per l’intera famiglia umana».
Sabato ne è stata la conferma. Non solo del valore della testimonianza di Enzo, ma della sua attualità, che è come un’onda, cresciuta nel tempo, capace di portare ancora oggi a Cristo. Un «carissimo amico», un «vero fratello nella fede» che, ha osservato il presidente della Fraternità di CL, Davide Prosperi, nei saluti al termine della celebrazione, «ci rende ancora più profondamente e consapevolmente grati per il dono del carisma ricevuto attraverso don Giussani». Un amico che ha «tracciato una strada che è possibile percorrere». «Noi oggi, nel vivere la medesima appartenenza al movimento e alla Chiesa, desideriamo – ha concluso Prosperi – imitare la sua attrattiva per Gesù che lo rendeva così attraente a sua volta». E come lui «spendere ogni stilla di energia» per la «Gloria umana di Cristo», in ogni luogo e circostanza.